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Accadde il… 7, 8, 9 maggio 1898. Fiorenzo Bava Beccaris prende a cannonnate il popolo di Milano

FolkNewsSETTEMBRE2023

di Daniele Fumagalli

Maggio 1898. Milano. Il Generale Bava Beccaris, Regio commissario straordinario con pieni poteri prende a cannonate ed a mitragliate il popolo meneghino, “armato” di sassi e pezzi di legno, che manifesta il proprio dissenso verso le politiche governative. Decine i morti, centinaia i feriti. 
Come si giunge a questo bagno di sangue? Per saperlo, per capirlo, è necessario per sommi capi riassumere la storia italiana del decennio che precede la sommossa. 
Si tratta di un concentrato di storia italiana. La peggiore. Per il noto adagio del “tutto resta com’è”, una storia davvero italiana.

Gli antefatti

Il decennio 1890-1900 inizia con un crack finanziario. La Banca Romana viene sommersa da una da una valanga di crediti inesigibili dovuta alle malaccorte speculazioni edilizie della neo-capitale. L’inchiesta Alvisi-Biagini scoperchia il vaso di Pandora: alla crisi di credito si aggiunge il fatto che la Banca ha stampato ed immesso clandestinamente sul mercato cartamoneta. 
Responsabile della maxitruffa è il direttore Tantolongo, detto “Sor Bernardo”, così efficacemente ritratto da Montanelli: «Un personaggio che ci sembra di aver conosciuto tanto è eterno e tipico di quel sottobosco governativo che a Roma fiorisce con particolare rigoglio» (Montanelli, Indro: Storia d’Italia, Vol. VI, Milano, RCS, 2003, p. 262).

Carriera tipica dell’intrallazzatore: confidente della polizia papalina, in seguito organizzatore di “piccole distrazioni” per Monsignori della Curia, era riuscito – tramite la massoneria – a entrare in contatto con i pezzi da novanta dell’epoca fino a diventare un uomo di fiducia della monarchia. Affabile, le tasche piene di sigari e la barzelletta romanesca pronta; abile nel farsi degli amici e presto tramutarli in complici. Quando si vede colto con le mani del sacco il Sor Bernardo non si allarma: invischiato come è in inciuci con grandi imprenditori, politici e giornalisti, è sicuro di passarla liscia. E i fatti sembrano dargli ragione, dato che l’allora Presidente del Consiglio, Francesco Crispi, insabbia tutto. Ma quando, tre anni dopo, lo scandalo esplode, un’ondata di panico investe il risparmio italiano, e – sull’onda del crack - il Credito Mobiliare e la Banca Generale chiudono gli sportelli. 

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La situazione politica

Secondo una consolidata prassi italiana, ben cinque governi si alternano in poco tempo, dal 1890 al 1898. Governi di coalizione, eterogenei, con maggioranze risicate. Il Presidente del Consiglio Di Rudinì, in carica all’epoca dei fatti di Milano, governa con una maggioranza in parlamento di soli tre voti (ed infatti sarà costretto a dimettersi solo un mese dopo il maggio milanese). 
A questa instabilità economica e politica si aggiunge il malcontento per le fallimentari imprese colonialiste volute da Depretis e Crispi. Le velleitarie pretese italiane d’istaurare un protettorato d’Abissinia vengono stroncate definitivamente nel marzo del 1896, quando l’esercito italiano subisce l’onta della sconfitta ad opera delle truppe del Negus Menelik e dell’Imperatrice Taitu, lasciando sul campo più vittime dell’intero Risorgimento: settemila uomini uccisi proprio da quelle cartucce che, per il solito pasticcio all’italiana, il governo di Roma aveva venduto agli stessi abissini qualche anno prima. 
Il contraccolpo nelle piazze italiane è potente; evidente il malcontento del popolo: secondo copione; per far fronte alle spese militari e ai debiti dello Stato, i prezzi di tutti i generi di prima necessità, compreso il pane, sono ulteriormente rincarati. E specialmente a Milano si hanno – già prima della primavera del ’98 - manifestazioni contro il governo di Roma. Proprio il capoluogo lombardo è, in quel momento storico, una polveriera.

La situazione milanese: il “pericolo socialista” e il “pericolo secessionista”

Un uomo non certo tacciabile di “settentrionalismo” come Gaetano Salvemini scriveva: «Ciò che Milano pensa oggi, domani lo penserà l’Italia!» (Citato in Canavero, Alfredo: Milano e la crisi di fine secolo (1896-1900), Milano, SugarCo, 1976. P. 12).

Ed in effetti mentre il resto del regno aveva accolto con sostanziale favore l’impresa Africana, l’intera cittadinanza meneghina l’aveva avversata fin dall’inizio. Il Corriere della Sera manifestava nelle sue colonne le istanze antigovernative ed antiafricaniste. 
Con la disfatta di Adua, tanto il popolo quanto l’industria borghese scese in piazza gridando “Via per sempre dall’Africa” e contribuendo così al crollo del governo Crispi (1896).
La borghesia industriale lombarda, intraprendente ed ambiziosa, non vedeva di buon occhio che i suoi guadagni venissero investiti in boutade coloniali. Aveva già sostenuto e fatto eleggere in Parlamento nel 1886 Giuseppe Colombo, il fondatore di Edison, affinché si facesse portavoce di quanto auspicato dagli imprenditori lombardi: rendere autonomo il capitale industriale, sottrarlo alla amministrazione di Roma che lo bloccava con il suo eccessivo fiscalismo, dirottandolo verso imprese fallimentari. 

Una “classe” borghese conscia del proprio peso e della propria ricchezza.

Milano è nel 1896 la perla industriale del regno d’Italia: l’apertura della galleria del Gottardo (1882) ne aveva ribadito il ruolo, già storico, di crocevia con il resto dell’Europa. L’anno dopo era stata realizzata la prima centrale termo-elettrica d’Europa. Un popolo tradizionalmente intraprendente come quello lombardo veniva dunque a essere favorito anche dalle cosiddette infrastrutture. E la presenza massiccia di una borghesia così progredita aveva favorito il sorgere di una coscienza di classe anche nel proletariato: in questi anni opera il milanese Filippo Turati che porta il neonato Partito Socialista ad ottenere diversi seggi alle elezioni nazionali del’1887.
Le elezioni portano alla formazione del governo Di Rudinì. Il lombardo Colombo, coerentemente, suggerisce un taglio delle spese militari: ma il Re Umberto I non ne vuole sapere. Risultato: Colombo si dimette e Di Rudinì è costretto ad aumentare le tasse; si ripropone dunque la via del fiscalismo a danno della competitività delle industrie del Nord. 
E i sentimenti antigovernativi tornano a rimontare fra la borghesia.
Accanto al malcontento borghese si ingrossa quello popolare, molto più drammatico perché spinto dalla fame: lievitano infatti i prezzi dei generi di prima necessità; il pane passa da 30 a 38 centesimi alla libbra nel volgere di sei mesi.
Tanto la borghesia quanto il proletariato meneghino si trovano dunque uniti su due punti fondamentali: l’abolizione del dazio sul grano e la lotta all’eccessivo fiscalismo. 
Ma il governo di Roma e la monarchia non ne vogliono sapere. Se a ciò si aggiunge che Milano è la patria del federalista Cattaneo, e che persino in ambiente massonico si crea una scissione fra il “grande oriente” nazionale e quello specifico milanese, si capisce come ci siano sufficienti elementi perché in questo periodo si parli di uno “stato di Milano” a cui si contrappone ferocemente quello di Roma. Una situazione di tensione che facilmente sarebbe sfociata in qualche incidente. 
Il 6 maggio 1898 l’arresto di un operaio che distribuisce volantini per il partito socialista provoca una reazione a catena che avrebbe condotto ai cannoni di Bava Beccaris.

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La galleria Vittorio Emanuele presidiata dall’esercito durante i moti del maggio milanese

Cronaca di un bagno di sangue

Guglielmo Savio, operaio, distribuisce presso la Pirelli volantini che si limitano a rivendicazioni generali: abolizione del militarismo e introduzione del suffragio universale. Le forze dell’ordine intervengono per sequestrare i volantini e gli operai Pirelli – usciti in quella per una pausa – li prendono a sassate. Uno di essi, tale Amadio, grida «Viva la rivoluzione» e viene anch’egli tratto in arresto.
Alcuni manifestanti, guidati dal socialista Dell’Avalle, si recano presso la centrale di polizia dove Amadio è detenuto chiedendone la liberazione, nulla ottenendo. A questo punto il crocchio, ingrandito dall’afflusso degli operai dell’Elvetica e della Stigler, tornano alla Pirelli e lanciano pietre verso lo stabilimento. L’ingegner Pirelli, preoccupato dalla piega che stanno prendendo gli eventi, telefona a prefetto e questore domandando – per placare gli animi – la liberazione dell’Amadio. Ma anch’egli si sente risponder picche. 
Giungono sul posto 150 soldati; arrivano anche Turati e Rondani, che cercano i placare gli animi. Dopo essersi consultati con Pirelli i due socialisti si recano dal procuratore del Re, sempre cercando di ottenere la liberazione dell’Amadio. 
Alle 18 precise, un messo comunale annuncia la abolizione del dazio comunale sulle farine e sulla pasta, e Turati e Rondani tornano con la promessa della scarcerazione dell’Amadio. Tutto sembra risolto. Turati, portato in spalla da due operai, si rivolge alla folla con queste parole: «Non alla pazienza dell’asino vi esorto, ma alla prudenza ragionata di cittadini, di operai consci dei vostri diritti. Badate che oggi non è il momento! Non prestatevi alle provocazioni dei vostri nemici. Io vi consiglio dunque la calma».
La situazione sembra tornata alla tranquillità alle 18.30, ma è una quiete solo apparente. La scintilla è scoccata e l’incendio è già dilagato. Alle 18.45 un migliaio di persone protestano dinanzi alla centrale di polizia di Via Napo Torriani 24. SI spara sulla folla e due manifestanti muoiono sul colpo. Diversi assembramenti si formano in piazza Duomo, e in galleria si canta l’Inno dei Lavoratori e l’Inno repubblicano. Scocca la mezzanotte fra arresti e cariche di baionetta.
Sabato 7 maggio, regna una calma apparente. La mattina inizia senza incidenti, ma presto gli operai della Pirelli e dell’Elvetica fanno il giro degli stabilimenti limitrofi. Si vuole organizzare un corteo pacifico che arrivi fino a Piazza del Duomo, per manifestare contro la condotta della polizia del giorno precedente. 
Ma le autorità intesero – o vollero intendere – diversamente. Alle 10.30 il prefetto Winspeare telefona al comandante del III corpo d’armata, il tenente generale Fiorenzo Bava Beccaris, e a mezzogiorno gli delega il  compito di ristabilire l’ordine. Ancor prima che da Roma giunga l’eventuale stato d’assedio, il potere passa nelle mani dell’autorità militare. 
Proseguono intanto gli incidenti. Vengono innalzate le barricate, ma si tratta solo di «Barricate rettoriche, reminiscenze della commemorazione delle Cinque Giornate fatta a marzo. Si cominciava a fare la barricata ma all’apparire della truppa la si abbandonava. La truppa la squarciava ed appena s’era allontanata la si rifaceva, ed il gioco ricominciava. A che potevano servire le barricate, giacché non c’erano armi da fuoco per difenderle?» 
Di Rudinì, allertato via telegrafo da Bava Beccaris e dal prefetto, proclama da Roma lo stato d’assedio nominando Bava Beccaris «Regio commissario straordinario con pieni poteri». Credendo – o volendo credere - di trovarsi dinanzi ad una insurrezione armata, o forse persino di un inizio di guerra civile, Bava Beccaris aprì il fuoco sulla folla. Domenica 8 maggio alle 17.40 il generale telegrafava a Di Rudinì che la situazione era pienamente ristabilita.
Lunedì 9 le officine cittadine non furono aperte. E quel giorno avvenne un episodio tragico e insieme grottesco che ben però illustra quanto la situazione fosse “sfuggita di mano”. Verso mezzogiorno si sparge la voce, infondata, che dal convento dei cappuccini di porta Monforte sono partite delle scoppiettate. Viene allora portato in loco un cannone e, aperta una breccia nelle mura del convento, i soldati lo assaltano traendo in arresto una sessantina di frati e mendicanti in attesa, come tutti i giorni, di una scodella di minestra.

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La breccia aperta nelle mura del convento

A città ormai tranquilla vengono frattanto uccisi altri quaranta cittadini, colpevoli di passare in loco ed assistere al tanto valoroso assalto. 
Numerosi anche gli arresti. Vengono arrestati Turati e Bissolati, recatisi a protestare dal tenente generale per l’arresto di Anna Kuliscioff, e il deputato socialista Andrea Costa, giunto in treno da Bologna. Assieme a loro vengono tradotti tutti coloro che sono sospettati di simpatizzare di idee sovversive. 
Difficile un bilancio delle vittime: 82 secondo le fonti ufficiali, 112 secondo Paolo Valera. A queste ne vanno aggiunte due fra le forze dell’ordine: un soldato ucciso per sbaglio dal fuoco amico, ed un altro caduto da un comignolo (o freddato perché si rifiutò di eseguire gli ordini, sempre secondo Valera). 
Lo stato d’assedio sarebbe rimasto in vigore in città fino a settembre. Nel mentre il “Re Buono” Umberto I conferisce a Bava Beccaris un’altissima onorificenza “per servigi resi alle Istituzioni e alla civiltà”.

Il canto popolare

Con questi elementi di storia non è difficile comprendere appieno il canto popolare di origine lombarda Il feroce monarchico Bava. Nulla però si sa dell’origine del canto e del suo autore. 
Nanni Svampa e Roberto Leydi attribuiscono la canzone ad un cantastorie, ma non c’è traccia di un eventuale foglio volante. 
La melodia - definita da Leydi “largamente usata dai cantastorie” – è riportata su spartito in tonalità LA maggiore, nella versione raccolta da Bermani a Granozzo (Novara) nel 1963. 

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Alle grida strazianti e dolenti
Di una folla che pan domandava,
Il feroce monarchico Bava
Gli affamati col piombo sfamò.

Furon mille i caduti innocenti
Sotto il fuoco degli armati caini
E al furor dei soldati assassini:
"Morte ai vili!", la plebe gridò.

Deh, non rider, sabauda marmaglia:
Se il fucile ha domato i ribelli,
Se i fratelli hanno ucciso i fratelli,
Sul tuo capo quel sangue cadrà.

La panciuta caterva dei ladri,
Dopo avervi ogni bene usurpato,
La lor sete ha di sangue saziato
In quel giorno nefasto e feral.

Su, piangete mestissime madri,
Quando scura discende la sera,
Per i figli gettati in galera,
Per gli uccisi dal piombo fatal

 

Bibliografia

Bertoldi, Silvio: I Savoia, ascesa e caduta di una dinastia (vol. V), Milano, Gruppo editoriale Fabbri, 1983.
Canavero, Alfredo: Milano e la crisi di fine secolo (1896-1900), Milano, SugarCo, 1976.
Carrocci, Giampiero: Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1978
Mack Smith, Denis: I Savoia Re d’Italia, Milano, Rizzoli, 1990.
Montanelli, Indro: Storia d’Italia, Vol. VI, Milano, RCS, 2003.
Leydi, Roberto: I canti popolari italiani, Milano, Mondadori, 1973.

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