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9 agosto 1160: il Barbarossa viene sconfitto nella battaglia di Orsenigo-Tassera
FolkNewsLUGLIO2022
di Daniele Fumagalli
Sulle orme di Sire Raul
Visse al tempo delle lotte del Barbarossa con Milano tale sire Raul, che fu cronista delle alterne vicende che videro scontrarsi la superba città meneghina con l’imperatore della casata di Svevia, fino alla sconfitta di quest’ultimo durante battaglia di Legnano (1176) ben ricordata nei libri di storia.
Tuttavia, ci fu un altro scontro: meno famoso ma non meno importante.
È il 9 agosto del 1160. Due eserciti si fronteggiano fra Tassera, Alserio ed Orsenigo, nell’attuale Brianza. Il primo, schierato a Sud, è comandato da Federico I Barbarossa. Il secondo è costituito dai cinque sesti dell’esercito di Milano, con duecento cavalieri bresciani di rinforzo. Le due armate non sono mai venute allo scontro diretto. La guerra fino a questo momento è stata diplomatica, o giocata sul piano di piccoli scontri mirati dall’una o dall’altra parte. Ora, si è arrivati alla resa dei conti. Ma come si è giunti a questo?

L'imperatore Federico I Hohenstaufen detto il Barbarossa
Denaro e castelli, politica e cavalieri
Formalmente, tutto il nord Italia era soggetto allora all’Impero fondato da Carlo Magno. Negli anni che erano seguiti alla dinastia degli Ottoni (sec X e XI) la mancanza di un forte potere centrale, con gli imperatori lontano ed al di là delle Alpi, aveva prodotto per contro nelle città italiane il darsi magistrature proprie; specie da parte della nobiltà minore, i cosiddetti valvassori. In mancanza di uno scettro, aspirazione dei nobili era il pastorale: massima, e talvolta unica, autorità cittadina.
Il più famoso fra i vescovi del tempo fu Ariberto. Di famiglia longobarda, era nato in una corte in Intimiano, all’estremo confine Nord del territorio allora detto Martesana. Era divenuto arcivescovo di Milano nel 1018, ed ebbe i denari, l’abilità (e l’intenzione) di farsi potente. Tanto potente da sfidare anche l’imperatore di turno, Corrado II. Fu proprio l’arcivescovo a dotare per la prima volta i militi milanesi, di ogni ceto sociale, di un segnale attorno a cui raccogliersi in battaglia: un carro. In tempo di pace, esso veniva tenuto nella sagrestia di Sant’Ambrogio. Più tardi, venne chiamato Carroccio.
Mentre in tutta Europa e nella normanna Italia del Sud (i vichinghi erano sbarcati in Sicilia nel 1061 e l'avevano strappata ai mussulmani) venivano a crearsi le fondamenta delle grandi monarchie nazionali; a nord della penisola le realtà comunali - e le loro intraprendenti e non sempre limpide famiglie di capitani e valvassori - espandevano i loro commerci e consolidavano la loro autonomia. Non sempre senza scontri reciproci fra gli stessi comuni. Esemplare è il caso di Como e Milano: formalmente entrambe soggette all’impero, si erano impegnate in una sanguinosa guerra per il possesso dei valichi alpini (fondamentali per i traffici con le regioni transalpine che andavano intensificandosi) durata quasi dieci anni (1118-1127).
Nonostante il flagello della discordia, l’economia aveva conosciuto un forte sviluppo, soprattutto in Italia. Ed a beneficiarne fu il ceto della piccola e media nobiltà: famiglie come i Della Torre e i Visconti, che tanto avrebbero fatto parlare di sé in seguito, vennero all’ascesa proprio in quel periodo. La maggiore circolazione del denaro, l’aumento demografico, lo sviluppo del commercio ed il miglioramento tecnologico (con più attrezzi in ferro) avevano consentito persino a molti membri del popolo di compiere una vera e propria ascesa sociale.

Il carroccio
Né deve stupire che allo sviluppo economico si accompagnasse quello culturale: in questi centocinquant’anni erano nate le università. Insieme a uomini e mercanti, circolavano libri ed idee.
Erano e restavano comunque anni difficili, in cui, come in ogni altra epoca, a far trionfare una fazione o un’altra era la combinazione di vari elementi: oro, forza militare, diplomazia e fortuna. Solitamente in equilibrio precario.
Senza tralasciare gli altri attori fondamentali del mondo cristiano: i vari uomini che si susseguirono sul soglio pontificio.
Nel 1152 venne eletto imperatore il trentaduenne Federico di Hohenstaufen che per il colore della sua barba passò alla storia come “il Barbarossa”.
Nella primavera successiva aveva ricevuto degli ambasciatori di Lodi e Como, sempre più oppressi dalla potenza di Milano. La quale dal canto suo non pagava più i tributi, trascurava la manutenzione di strade e ponti, negava ospitalità ai legati tedeschi. L’imperatore spedì in Lombardia il conte Sicherio, che venne pubblicamente sbeffeggiato e malmenato: quindi nell’autunno dello stesso anno Federico valicò le alpi con duemila cavalieri, ed a Roncaglia ridusse i milanesi a più miti consigli (prima dieta di Roncaglia, 1154).
Ma nel 1158, forti dell’alleanza con i lecchesi ed i martesani; i milanesi alzarono ulteriormente il tiro. Non riuscendo a sottomettere Lodi con la diplomazia, lo fecero con la forza. La piccola città venne rasa al suolo. Il Barbarossa scese ancora in Italia con un grande esercito in cui figuravano due re (di Boemia e di Ungheria) e molti principi laici ed ecclesiastici, duchi (d’Austria, di Svevia, di Carinzia) e gli arcivescovi di Colonia e Treviri. Tutta la Germania aveva risposto all’appello: l’imperatore venne alla testa di parecchie migliaia di uomini.
A Milano furono imposte condizioni molto dure (seconda dieta di Roncaglia).
Con questa seconda assemblea, il Barbarossa rivendicò le regalie che progressivamente l’impero aveva ceduto alle città del Nord-Italia: tasse che avrebbero fruttato circa 30.000 talenti.
Ma l’imperatore non poteva sperare di sottomettere gli orgogliosi (e taccagni) lombardi a lungo. Per quanto formalmente uniti, il regno teutonico e quello italiano erano fortemente diversi.
Il mondo germanico era caratterizzato da una fortissima gerarchizzazione sociale, da una economia arretrata basata sull’agricoltura e da città molto piccole senza alcuna pretesa sui territori circonvicini. Il baratto era ancora dominante.
Al contrario, in Italia proprio le città stavano giungendo alla loro piena affermazione. Vi circolava molta moneta e c’era parecchia mobilità sociale, nonché un notevole sviluppo commerciale, manifatturiero, tessile e metallurgico. Le comunità dei comuni si erano dati dei Consoli, eletti in assemblea: espressione di come i cittadini maschi si sentissero membri liberi di una comunità. Cittadini, appunto.
Erano, insomma, Italia e Germania due mondi diversi che non potevano convivere a lungo.
Milano appena l’anno successivo cacciò il podestà imposto dall’imperatore.
A quest’ennesimo atto di ribellione, l’Imperatore (che aveva svernato in Piemonte, pur avendo congedato gran parte dell’esercito teutonico e boemo) si rivolse ancora verso la città lombarda: intenzionato a domare una volta per sempre lo spirito dei milanesi.

Le insegne delle sei porte milanesi. Da sinistra a destra: Nuova, Romana, Orientale (Renza), Comasina, Ticinese, Vercellina
Cronaca di una battaglia
L’esercito milanese era formato allora dalle milizie delle sei porte medievali. Nel luglio del 1160, le milizie di porta Vercellina, Comasina e Nuova avevano attraversato la Brianza (allora detta Martesana) distruggendo i castelli di Cesana, Cornate, Erba e Parravicino. Erano infine giunte al castello di Carcano, e lo stavano assediando (luglio 1160) nel frattempo spedendo messi in pianura per domandare il “cambio” con le armate delle altre porte.
L’imperatore non era stato a guardare ed era risalito dalla fedelissima Pavia con il proprio contingente: l’imponente cavalleria teutonica, gli armati del fedele re di Boemia e gli alleati ghibellini italiani di Novara, Vercelli, Como e Pavia. Il Barbarossa si era dunque accampato nel villaggio che Sire Raul chiama Spigizollum[1], dandolo alle fiamme (6 agosto) e poi, sulle orme dei milanesi, si era diretto a Nord Est cingendo gli assedianti e innalzando barricate per bloccare ogni possibile rifornimento. I milanesi erano in trappola, a corto di vettovagliamenti.
L’arcivescovo di Milano, Umberto I da Pirovano, esortò popolari e ottimati alla battaglia. Le truppe milanesi, cinque sesti dell’intera armata comprensiva delle truppe che sarebbero dovute rientrare in città, erano affiancate da duecento cavallerizzi dal bresciano: fu celebrata la messa e data la comunione, e fu letteralmente improvvisato un Carroccio (l’originale era rimasto a Milano, giacché – come già detto – non era prevista una battaglia campale). Furono sguainate le spade, fischiarono le frecce e si pervenne infine allo scontro.
L’esito apparve fin da subito incerto. Fanti e cavalieri milanesi attaccarono i tedeschi riuscendo a giungere fino all’accampamento del Barbarossa, e si diedero al saccheggio del ricco padiglione dello stesso imperatore (dono del sovrano d’Inghilterra). Ma a quel punto, l’Hohenstaufen passò al contrattacco: distinguendosi per valore, l’imperatore si fece largo a colpi di fendente fino al Carroccio, facendo strage in particolare dei fanti di porta Romana ed Orientale. Giunto presso il simbolo della libertà comunale, ne trafisse uno dei buoi gettando il Carroccio in un fosso e abbattendone l’antenna.
Tuttavia, questa vittoria parziale gli aveva fatto perdere la vista globale della battaglia. Sul fianco sinistro, la maggioranza della cavalleria milanese e bresciana stava facendo strage degli alleati di Novara e di Como, anche grazie all’appoggio dei popolani di Erba ed Orsenigo. L’imperatore era sconfitto: il combattere in prima linea gli aveva fatto perdere la visione d’insieme del campo di battaglia. Abbattendo il Carroccio si era illuso di avere fiaccato i suoi avversari, ma li aveva sottovaluti. Ora era lui a trovarsi circondato, ma tornò rapidamente freddo e severo. Fece suonare i corni radunando i suoi cavalieri e si sganciò rapidamente dal combattimento. Scoppiava nel mentre un fittissimo temporale estivo: approfittando del terreno bagnato che rallentava i movimenti dei suoi avversari, il Barbarossa si diresse verso Nord Ovest, verso Como. Il destriero imperiale, durante la fuga, restò impigliato in un filare di viti (o in una radice di un albero). L’imperatore rischiò a questo punto di essere fatto prigioniero; senonché sopraggiunse all’improvviso un altro cavaliere, che più tardi si seppe essere il conte di Lomello: egli raccolse l’imperatore sul suo cavallo ed entrambi riuscirono così a mettersi in salvo in direzione di Montorfano.
[1]Riconosciuto generalmente come Vighizzolo di Cantù già da Holder-Egger, Oswald (1851-1911): “Corruptum esse nomen huius loci, qui nusquam reperitur, conicio et legendum esse Vigizollum, quod est Vighizzolo a Cantù orientem et meridiem versus situm”.
Le conseguenze della battaglia
Se Atene piange, Sparta non ride. Molte centinaia di milanesi restarono sul campo: ma per la prima volta, fu evidente che dei cittadini appiedati erano in grado – se ben guidati - di tenere testa anche alla cavalleria. Insegnamento che sarebbe stato utile in seguito.
I Consoli milanesi non dimenticarono l’aiuto degli abitanti di Erba ed Orsenigo: concessero loro dei privilegi fiscali, inoltre da semplici paesani del contado, essi ottennero l’iscrizione nei registri della parrocchia di San Babila in Milano: divenendo così, a tutti gli effetti, cittadini milanesi (con relativi privilegi). Nel comune di Erba, campeggia tutt’ora lo stemma della città di Milano a ricordo di questo evento.
Riavutosi dalla sconfitta di Tassera ed ottenuti rinforzi, il Barbarossa assediò Milano l’anno seguente, costringendola alla capitolazione per fame nel marzo 1162. Ciò avvenne grazie alla schiacciante forza dell’imperatore, come anche dall’appoggio delle sue città alleate nel Nord-Italia. Alcune famiglie nobili milanesi, inoltre, erano passate dalla sua parte: i Carcano, i Parravicino, i Castiglioni. Gran parte dei territori della Martesana, tutto il Seprio e Lecco, fecero lo stesso.
Restarono invece fedeli alla città i Della Torre, i Croci ed i Visconti; e lo stesso fece l’avamposto di Cantù, che avrebbe ospitato molte famiglie milanesi esuli, specialmente della piccola e media nobiltà.
Dopo aver fatto evacuare la città, l’imperatore la fece distruggere per mano dei suoi alleati italiani: i quali, per inciso, furono ben contenti di farlo. Piccola curiosità: il più antico canto lombardo di cui abbiamo notizia, Come è diruto Mediolano, parla proprio di questo evento. Nel 1167 fu ricostruita Milano e le altre città del Nord Italia, dimenticate le antiche reciproche discordie, si univano a formare la Lega Lombarda.
Un nuovo scontro era inevitabile. Mentre attendeva altri rinforzi dalla Romagna, l’Imperatore si scontrò con le truppe della Lega presso Legnano il 29 maggio del 1176. E perse la battaglia.
Dopo alterne vicende si giunse alla pace di Costanza: non una capitolazione dell’imperatore, ma un compromesso. Alle città furono restituite le regalie rivendicate a Roncaglia. In cambio, tutti i cittadini giuravano fedeltà all’impero e gli versavano parte del censo.
Vantaggioso per entrambe le parti, l’accordo rafforzò i regimi comunali del Nord-Italia, e soprattutto Milano che s’avviò ad avere quel ruolo egemone che avrebbe ricoperto in futuro.

Milano si arrende al Barbarossa
Bibliografia
Fra le fonti antiche: il Manipulus florum di Galvano Fiamma, le Gesta Federici di Sire Raul nell’edizione critica di Oswaldus Holder-Egger edita ad Hannover (impensis Bibliopolii Hahniannel) nel 1892.
Fra gli studi più recenti.
Grillo, Paolo. La falsa inimicizia: Guelfi e Ghibellini nell'Italia del Duecento, Roma, Salerno editore, 2018.
Marieni, Antonello: Federico Barbarossa, Erba, Pam Edizioni, 2005.