Milano canta: i Gufi e la tradizione folkloristica meneghina
FolkNewsLUGLIO2022
di Daniele Fumagalli
Scrivere un articolo su I Gufi, quartetto di cabaret e canzone che ha fatto la storia dell’avanspettacolo italiano nel magico lustro 1964-1969 è davvero difficile. Non si sa da dove partire: quatto personalità di calibro, con un repertorio spaziante (oltre che spaziale!) che va dalla canzone macabra a quella cabarettistica, dalla canzone di satira a quella esistenziale, dal teatro canzone ai caroselli della RAI.
Roberto Brivio, il cantamacabro, attore, autore, all’occorrenza fine dicitore. Gianni Magni, il cantamimo dalle movenze surreali e dalla contagiosa allegria a nascondere un carattere difficile e malinconico. Lino Patruno, il cantamusico pioniere del dixieland nostrano, stupendo autodidatta con nelle vene il sacro schema delle trentadue misure del blues. E Nanni Svampa, il colto cantastorie, ricercatore ed etnomusicologo e traduttore di Brassens in milanese.

Facendo una scelta in linea con questa rubrica, si restringerà il campo al contributo che i Gufi hanno dato alla diffusione della canzone milanese. Un contributo significativo, per contenuti e per risonanza nazionale: la fama dei gufi, estesasi ben oltre Milano (specialmente in seguito ai due spettacoli realizzati con Luigi Lunari) li ha resi efficaci ambasciatori di canzoni popolari meneghine diventate, o ridiventate, dei classici; proprio grazie alla loro interpretazione. Non a caso, nella loro produzione discografica incontriamo non uno, non due ma ben tre dischi intitolati: “Milano Canta”, in cui canzone inedite si mischiano a canti tradizionali.
Possiamo dunque stendere un “catalogo” di canti popolari milanesi proprio seguendo le orme dei Gufi. O più prosaicamente, la loro discografia “milanese”.
Milano canta n° 1 (Columbia-EMI, 1965)
Il disco si apre con due classici: la Ballilla e Porta Romana. La prima canzone, interpretata anche da Gaber e Jannacci, è nella versione gufesca più completa e, se vogliamo, filologicamente corretta. Porta Romana apre uno spiraglio sulla sotto-cultura della ligera, ossia la malavita milanese, già allora in via d’estinzione (come le osterie in cui queste canzoni venivano cantate): presto ben altri poteri avrebbero rimpiazzato tanto la mala quanto le osterie. Anche Porta Romana fu ripresa, come noto, da Gaber, in una versione totalmente inedita: a testimonianza delle profonde radici popolari dei cantautori della cosiddetta scuola milanese. Segue El Biscella, canzone della premiata coppia D’Anzi-Bracchi che aveva firmato, a cavallo fra gli anni trenta e gli anni cinquanta, capolavori nazional popolari come Ma le gambe o Ma l’amore no. A D’Anzi si deve la composizione, negli anni ‘30, di Oh mia bela madunina, canzone milanese per eccellenza che tuttavia i Gufi non incisero. Sarebbe stata incisa da Svampa come solista anni dopo. Piccola curiosità: come ebbe modo di rivelarmi, egli non amava particolarmente questa canzone.

Il disco si apre con due classici: la Ballilla e Porta Romana. La prima canzone, interpretata anche da Gaber e Jannacci, è nella versione gufesca più completa e, se vogliamo, filologicamente corretta. Porta Romana apre uno spiraglio sulla sotto-cultura della ligera, ossia la malavita milanese, già allora in via d’estinzione (come le osterie in cui queste canzoni venivano cantate): presto ben altri poteri avrebbero rimpiazzato tanto la mala quanto le osterie. Anche Porta Romana fu ripresa, come noto, da Gaber, in una versione totalmente inedita: a testimonianza delle profonde radici popolari dei cantautori della cosiddetta scuola milanese. Segue El Biscella, canzone della premiata coppia D’Anzi-Bracchi che aveva firmato, a cavallo fra gli anni trenta e gli anni cinquanta, capolavori nazional popolari come Ma le gambe o Ma l’amore no. A D’Anzi si deve la composizione, negli anni ‘30, di Oh mia bela madunina, canzone milanese per eccellenza che tuttavia i Gufi non incisero. Sarebbe stata incisa da Svampa come solista anni dopo. Piccola curiosità: come ebbe modo di rivelarmi, egli non amava particolarmente questa canzone.
E mi la dona bionda è una canzone popolare diffusa con varie varianti in tutta l’Italia settentrionale, e ancora oggi nel repertorio di alcuni gruppi folkloristici.
Interessante è La circonvallazion, ballata folk di Nanni Svampa. All’apparenza, un brano scanzonato che cela però la profonda tristezza dei rapporti amorosi naufragati nell’abitudine.
L’è tri dì (che’l pieov e’l fioca) è un canto non propriamente milanese, in quanto radicato piuttosto nel folklore rurale. Lo stesso Svampa nella sua auto-biografia Nanni ’70 racconterà di averla sentita da bambino, la prima volta, sulle sponde del lago maggiore. Sempre a firma Svampa sono i capolavori A l’era sabet sera e Gh’è ammò un quaivun.
Milanesissima, nella terminologia e nelle atmosfere, e El ridicul matrimoni, lunga ballata tragicomica a tema nozze. Il disco si conclude con tre capolavori assoluti, milanesi, ma non popolari in senso stretto. Si tratta infatti di tre canzoni d’autore: Piazza Fratelli Bandiera (Svampa), E l’era tardi (Enzo Jannacci) e El me gatt (Della Mea). Nella Milano del boom economico i Gufi non temono dunque di incidere canzoni che parlano di povertà e di immaginazione, evitando – secondo il costume autenticamente lombardo – ogni tono melodrammatico.
Milano canta n° 2 (Columbia-EMI, 1966)

Milano canta numero 2 si apre con è mezzanotte in punto. El gran risott: un lungo pout-pourri composto da frammenti di canzoni popolari. Non è dato sapere se questi frammenti erano parte di composizioni più lunghe oggi perdute, come perduti sono molti dei significati reconditi nei versi stessi, più o meno intellegibili. Di particolare interesse storico, e molto chiare, sono invece le strofe che attribuiscono poco edificanti vicende della principessa Sissi: una delle molte tracce della nota antipatia dei milanesi per i tugnitt austriaci per quanto, come ebbe a scrivere Tomasi da Lampedusa, i padroni successivi non furono più graditi ai milanesi. La ballata del pittor è un’originale e sensibile composizione di Patruno, a cui segue un altro capolavoro, di stupenda matrice popolare. Si tratta de La povera Rosetta, canzone che racconta l’uccisione di una prostituta da parte di un agente di polizia. Un delitto realmente accaduto nei pressi della Piazza Vetra (citata nella canzone) a inizio del XX secolo. Tucc i dì, di Svampa-Patruno, denuncia la condizione operaia
nell’industria del Nord: siamo nel 1966, Modugno canta Dio come ti amo e la protesta nazional popolare è quella edulcorata e semplicciottistica del ragazzo della Via Gluck. Entrambe lontane dai veri problemi sociali. I Gufi, con due anni di anticipo sulle rivendicazioni sessantottine, hanno il coraggio di incidere canzoni simili.
Si ritorna al canto popolare: lombardo con Donne gh’e chi ‘l magnano e specificatamente milanese con La bella gigogin, canzone risorgimentale su cui si potrebbe scrivere un libro intero, talmente famosa da essere citata nel Gattopardo e in Piccolo mondo antico (sia nei libri che nei film). Si segnala come particolare rilevante l’interpretazione dei Gufi di Verrà quel di di lune, una semplice filastrocca interpretata, però, con grande raffinatezza. De tant piscinin che l’era è altrettanto popolare e datata (se ne ha attestazione già nel primo ‘800), per quanto – come molte canzoni popolari – dovette subire diversi rimaneggiamenti (nella versione dei Gufi è citato Cavour, ad esempio, arrivato “dopo” la prima traccia storica del canto). Adeguarsi ai tempi ed alle circostanze è del resto una caratteristica di molti canti popolari.
Un discorso a parte merita Ma mi, stupenda ballata di Strehler e Carpi: uno di quei casi, non sempre frequenti, a cui la popolarità si accompagna alla bellezza. I Gufi ne fanno una incisione di pregio, ma per sapere qualcosa in più sulla canzone si raccomanda la visione di questo video, in cui è lo stesso Strehler a dirci qualcosa in più. https://www.youtube.com/watch?v=ypigNAWcQsk
Infine La mamma di Rosina, canto popolare settentrionale che chiude il disco, rivela un certo amore che la canzone lombarda nutre nei riguardi del doppio senso e delle vicende di letto.
Milano canta n° 3 (Columbia-EMI, 1968)

Si giunge dunque all’ultimo LP della serie milanese, come i precedenti – ibrido fra tradizione e nuove proposte. Blues in Milan (Svampa-Patruno), Un an e mez (Svampa-Patruno), Folk (Negri), Quand G’avevi sedes ann (Della Mea). Interessante è l’esperimento di Socialista che va a Roma: sull’antica ballata lombarda Pellegrin che va a Roma, i Gufi realizzano una satira, firmata Luigi Lunari, che va a colpire l’esperienza di governo del Centro-Sinistra nell’alleanza DC-PSI.
Luisin invece è filologicamente fedele: si tratta di un canto popolare lombardo che racconta la morte di un giovane soldato.
El gir del mund, che avvia il lato B, è interessante in quanto rivela il fenomeno – ricorrente nelle ballate d’osteria – della stratificazione testuale (l’aggiunta periodica di nuove strofe). Degno di nota è il fatto che, in un canto dell’epoca, si parli di un travestito (la bissa regina del parco Ravizza). Piccola curiosità: il brano, tradizionale e dialettale, piaceva molto al giovane Rino Gaetano.
Dopo l’intermezzo di Parlen tucc (Svampa-Patruno) si ritorna al popolare con la fera di San Piero. Ballata all’epoca diffusa soprattutto nel cremonese, racconta di due giovani che fanno l’amore nascosti nel grano turco, durante le funzioni religiose (con esito nefasto). Si prosegue con il popolare con L’Avvelenato. Il talento interpretativo dei Gufi giunge al culmine con l’interpretazione di questa triste ballata antichissima, sicuramente imparentata addirittura con la ballad folk irlandese Lord Randall.
Significativo è il fatto che l’ultimo LP Milanese dei Gufi si concluda con Mi te pensi de luntan, in cui lo Svampa migliore, da cantautore sincero, mette alla gogna una certa retorica nostalgica (spesso per altro, tutt’altro che disinteressata).
I Gufi cantano due secoli di resistenza (Columbia-EMI, 1965)
Un posto a sé merita LP I Gufi cantano due secoli di Resistenza, in cui confluiscono i talenti canori dei quattro gufi e quelli, filologici ed etnomusicologici, di Svampa e di Brivio. A onor del vero, il quartetto fu qui supportato da Mario De Micheli, critico d’arte (e capo partigiano). I canti, tutti popolari, vengono nell’LP presentati con tanto di note filologiche: il risultato finale è eccellente, predittivo di un certo gusto per il folk che sarebbe riesploso un decennio dopo.
Partire, partirò, partir bisogna è un autentico gioiello datato 1799, che esprime benissimo i sentimenti del popolano costretto ad andare in guerra (contro il suo volere). L’inno ad Oberdan, datato 1882, si segnala soprattutto per il talento interpretativo del cantato/recitato di Roberto Brivio, che qui tocca uno dei suoi vertici. Addio a Lugano (conosciuta anche come Addio Lugano Bella), poesia di Pietro Gori del 1895, fu cantata - nel medesimo periodo - da Gaber, Jannacci, Toffolo, Pisu e Profazio nella trasmissione Le nostre serate. Difficile stabilire quale delle due sia la versione più bella. Certamente la coincidenza, anagrafica e sostanziale, fra le due interpretazioni la dice lunga sul clima culturale che gli artisti milanesi respiravano in quegli anni.

Del 1914 è il testo di Trilussa La ninna nanna della guerra, qui proposta dai Gufi, secondo le note del disco, su una melodia popolare piemontese. Di raro pregio sono le esecuzioni di O Gorizia tu sei maledetta (1916) e Il bersagliere ha cento penne (anch’essa del primo conflitto mondiale, poi rifunzionalizzata nel secondo). In particolare O Gorizia, sincero anatema contro gli arditi e i guerrafondai, giunge a livelli lirici insuperabili. l lato B prosegue con i due classici per eccellenza della Resistenza propriamente detta: Bella Ciao e Fischia il Vento. Entrambe popolari in senso stretto, in quanto di autore ignoto e tramandate oralmente. Della seconda conosciamo, però, che fu una rifunzionalizzazione sull’aria della canzone russa Katiuscija.
Cosa rimiri mio bel partigiano e Pietà l’è morta ci riporta al dramma degli Alpini, tornati dai vari fronti, diventati partigiani. Il brano che chiude il disco è Se non ci ammazza i Crucchi, raccolta a Porto Valtravaglia nel 1943 da un etnomusicologo d’eccezione: il giovane Dario Fo.
Bibliografia
Nel presente articolo sono convogliate, oltre che le testimonianze che raccolsi direttamente da Roberto Brivio, Luigi Lunari e Nanni Svampa, anche le informazioni reperite nei volumi I mitici Gufi di Michele Moramaco (Edishow, Reggio Emilia, 2001) e Il mondo di Nanni Svampa. Vita, morte e miracoli di un cantastorie, di Michele Sancisi (Vimercate, Sagoma editore, 2022)